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La Villetta per Cuba
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La grande rimozione

La grande rimozione

L’Associazione La Villetta per Cuba, invita iscritte/i e simpatizzanti alla presentazione dell’ultimo saggio pubblicato dal prof. Mordenti: “La grande rimozione. Il ’68-77: frammenti di una storia impossibile”. Oltre l’ autore, durante la presentazione interverrà anche il presidente dell’ ass. Villetta per Cuba Luciano Iacovino, il prof. Luciano Vasapollo (ass. Nuestra America e Centro Studi Cestes Proteo), Giovanni Russo Spena (P. R. C.), il giornalista e scrittore Mimmo Cosimo Quaratino, il sindacalista e saggista Piero Bernocchi (Cobas) e Padre Massimo Nevola. L’iniziativa si terrà il giorno 8 giugno 2018, 
alle h.17:30, presso l’ Ass. la Villetta per Cuba in via degli Armatori 3, quartiere Garbatella, Roma.

La grande rimozione del prof. Raul Mordenti 

Il ’68-77 (“decennio rosso”) non è stato affatto quello che hanno raccontato le ricostruzioni giornalistiche e televisive: una simpatica lotta per la libertà sessuale e per i diritti civili oppure, al contrario, la preparazione del terrorismo di sinistra. Il Movimento è stato invece un tentativo, per quanto politicamente primitivo e insufficiente, di riproporre il problema della rivoluzione in Occidente. Né più né meno.

A partire dalla riflessione sulla novità teorica di quel ciclo di lotte (il concetto di “movimento politico di massa”), il libro ricostruisce la vitale realtà di un decennio di lotte che hanno fecondato e arricchito la democrazia italiana e si interroga in particolare sulle ragioni della sconfitta del movimento del ’77, «una sconfitta che si poteva e doveva evitare».
Il movimento – diffuso e duraturo, com- plesso e ricco di potenzialità di decine di migliaia di compagni – è stato ieri represso così come oggi è fatto oggetto di una inaccettabile cancellazione: “la grande rimozione”.

Pubblichiamo un estratto dal libro del compagno Raul Mordenti: "La grande rimozione.
Il ’68-’77: frammenti di una storia impossibile", Roma, Bordeaux, 2018, pp. 200, €. 16,00. 

“Se una generazione deve saperlo è la nostra: ciò che possiamo attenderci dai posteri non è la gratitudine per le nostre imprese, bensì che vi sia memoria di noi che siamo stati battuti.”
(Walter Benjamin)

Codesto solo oggi possiamo dirti, 
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
(E. Montale)

1. Cosa non è stato il ’68 (ovvero: perché “Millennium” ha torto)
Raramente il peggiore incubo si realizza con tanta precisione. Parlo in questo caso della storia del ’68 e del numero che le dedica “Millennium” (a.I, n.6, ottobre 2017) battendo sul tempo tutti, ma dunque anche – probabilmente – segnando una direzione, un clima, un precedente destinato a non restare isolato.
Nella presentazione del numero, il direttore Peter Gomez, confessa francamente di non sapere nulla del ’68, per motivi di età, e soprattutto rivendica di essere ispirato da Indro Montanelli con cui lavorò al “Giornale”. Ricordiamo a chi non l’avesse conosciuto chi era costui: già fascista, razzista e colonialista, sempre reazionario, Indro Montanelli fu uno dei megafoni giornalistici della “strategia della tensione” a Milano; con i soldi di Berlusconi e Co. si separò dal “Corriere della sera” diretto da Piero Ottone da lui considerato troppo di sinistra e fondò “Il Giornale”, detto “di Montanelli” in realtà di Berlusconi (che infatti lo fece fuori senza complimenti quando si manifestarono dissensi fra i due).
Il giudizio di Montanelli sul ’68, citato dall’allievo Gomez, è che quell’anno avesse solo condotto “alla nascita di una bella torma di analfabeti che poi invasero la vita pubblica italiana, e anche quella privata, portando ovunque i segni della loro ignoranza”[1]. L’analisi del vecchio reazionario viene considerata da Gomez “cruda, ma certamente realistica, se si esaminano le carriere successive di molti leader e leaderini del Movimento studentesco, poi diventati membri permanenti del nostro pessimoestablishment.”[2]
Gran parte del numero è su questa linea interpretativa: non è bastato loro sconfiggere, calpestare, massacrare il ’68, ora debbono anche dire che il ’68 è stato ed è al potere, anzi rappresenta il peggiore establishment. Insomma: cornuti e mazziati.
Così Massimo Fini: “(…) del Sessantotto e della sua rivoluzione di cartapesta e di spranga ci siamo liberati. Dei “sessantottini” no. Sia pur invecchiati formano una potente framassoneria, trasversale alla destra e alla sinistra, soprattutto nei media e nella politica, che si autotutela e sbarra il passaggio agli altri.”[3]
Ora, io penso che la verità sia esattamente il contrario di questa tesi.
È una tesi del tutto falsa, e io sento qui il dovere di difendere da questa calunnia la mia generazione. Lo straordinario successo sociale dei “sessantottini” e il loro essersi venduti è solo una menzogna invidiosa diffusa dal potere per vendicarsi del movimento, una menzogna da smentire.
Non è saggio guardare l’albero e rifiutarsi di guardare la foresta: due o cinque o dieci ex-sessantottini venduti (non è elegante fare nomi qui) non possono occultare la scelta della stragrande maggioranza di noi, che è stata di solito di una scelta di straordinaria coerenza, in un paese in cui qualsiasi coerenza (e tanto più se di opposizione) si paga a carissimo prezzo.
È talmente radicale e profondo il dissenso politico con questa interpretazione, che può apparire marginale far notare il difetto – diciamo così – documentario e filologico che sostiene questa ricostruzione. Anzitutto, cosa intende “Millennium” per “sessantottini”? Fra le venti figurine a colori di “Millennium” intitolate “Album 1968”[4] figurano personaggi che col ’68 veramente c’entrano come i cavoli a merenda (oppure c’entrano solo perché osteggiarono il movimento in ogni modo).
Faccio solo alcuni esempi: c’è Massimo D’Alema, descritto così: “Roma, 20/4/1949. Pci, in piazza col Movimento. Poi presidente del Consiglio”; ma che c’entra D’Alema col ’68? Studiava a Pisa, è vero, ma era già un dirigente della Fgci e – in quanto tale – era esterno e sostanzialmente ostile al movimento (il che non gli impediva, ovviamente, di partecipare ai cortei). E c’è anche Giuliano Ferrara, con questa didascalia: “Roma, 7/1/1952. Pci, in piazza a Valle Giulia. Poi fondatore del Foglio”; lasciamo perdere che Ferrara ha fatto anche di peggio che fondare il “Foglio”, ma aver partecipato, da studente medio sedicenne al corteo di Valle Giulia del 1/3/1968 fa di Ferrara un esponente del movimento? Mi sia permesso, da assiduo militante del movimento studentesco romano, di smentire risolutamente questa bugia: no, Ferrara nel movimento non c’era proprio. E la figurina di Fabrizio Cicchitto che ci azzecca? Questa la (delirante) didascalia: “Roma 26/10/1940. Trotskista. Poi Psi, P2, Fi, oggi alfaniano”. Di nuovo: Cicchitto (al tempo – se non ricordo male – dirigente della Federazione Giovanile Socialista) col ’68 non c’entrò mai nulla. Perché allora “Millennium” mette la sua figura (ancora peggiore della sua figurina) sul conto del ’68? Analogo discorso si potrebbe fare per Nanni Moretti (nato il 19/8/1953 che dunque aveva quattordici anni nel ’68) o per Bernardo Bertolucci (“In corteo a Valle Giulia. Regista”). Il caso di Paolo Mieli (didascalia: “Fgci e Potere operaio. Editorialista Corriere della sera”) meriterebbe un discorso a parte, perché resta tutto da discutere quanto egli abbia portato il movimento nel potere mediatico del Paese o al contrario, in quanto redattore dell’“Espresso” fin da giovanissimo e membro più o meno “in sonno” del gruppo “Potere operaio”, non abbia portato invece lo sguardo del potere nel movimento.
Da militante del movimento romano mi limito comunque a citare (e smentire) fra i venti figurinati di “Millennium” solo quelli di cui posso fornire personale testimonianza, ma è probabile che analoga marginalità, o estraneità, possa caratterizzare altre figurine non romane. L’unica vera vergogna del movimento romano (lo riconosco francamente) è in effetti l’ex “uccello” e poi berlusconiano Paolo Liguori, un ex compagno passato dall’altra parte. Ma il grosso – diciamo così – fatto di migliaia o forse di decine di migliaia di compagni/e, non passò affatto dall’altra parte, e soprattutto nel complesso nessuno di noi arrivò mai a nessun potere.
Al contrario di quanto sostiene “Millennium” non c’è praticamente nessun uomo e nessuna donna del ’68 al potere, che abbia esercitato o eserciti il potere “vero”: non un ministro o un uomo politico[5], non un grande industriale o banchiere, non un dirigente sindacale nazionale, non un direttore di giornale, non un pezzo grosso della magistratura, neppure – direi – un professionista di grande successo[6], non un leader d’opinione televisivo; nell’università e in generale nella scuola sarebbe stato impossibile che non finissero compagni/e del ’68, non foss’altro perché costoro erano spesso quelli che studiavano di più ed erano più appassionati alla ricerca e all’insegnamento di altri, ma anche nell’università non conosco nessun rettore che provenga dal ’68. 
Credo che in altri paesi la situazione sia stata diversa[7], ma in Italia il potere, il potere “vero”, ha invece “saltato” e punito una intera generazione, la nostra, colpevole di avergli messo paura (questa la vera e sola colpa del ’68-’77: gli abbiamo, per un attimo, messo un po’ di paura).
Penso che il ’68 sia stato rifiutato e respinto dall’establishment italiano, senza nessuna apertura o mediazione; penso che il prezzo di questo rifiuto sia stato da noi pagato fino in fondo e in prima persona, e penso anche che la società italiana (a cominciare dalla politica e dal giornalismo) sia quello schifo che è proprio perché è avvenuto un simile rifiuto.
Cercare di argomentare questa tesi, cioè dimostrare la falsità della linea interpretativa rappresentata da “Millennium” (ma che allieterà le celebrazioni del cinquantenario), è l’intenzione che motiva le pagine che seguono. (…)

2. Cosa il ’68-’77 non è stato.
Il ‘68-’77 non è stato quello che ora vorrebbero raccontarci le ricostruzioni giornalistiche e televisive che hanno deturpato il quarantennale del ’77 e si apprestano a fare carne di porco del cinquantennale del ’68.
In particolare sono del tutto false e fuorvianti, le due interpretazioni (diverse ma simmetriche e, a ben vedere, convergenti) che ci ammorbano: (a) il ’68-’77 come utile e simpatica lotta per la libertà sessuale e per i diritti civili, e (b) il ’68-’77 come anticamera e preparazione del terrorismo di sinistra.
Non è stato, il ’68-’77, un grazioso movimento di lotta per i diritti civili, per la libertà di fumo o per la liberazione sessuale, che si sarebbe poi, ahimè!, rovinato per un deplorevole incontro con il marxismo e con il movimento operaio. Beninteso: anche questi temi di libertà personale vi furono, perché un grande movimento di massa che coinvolge e sconvolge il vissuto di migliaia e migliaia di persone cambia anche i rapporti personali, i sistemi di valori, i comportamenti, le modalità dell’amore e gli assetti del potere nelle famiglie, etc. Tuttavia questi risultati sono, per dir così, preterintenzionali, furono ricadute secondarie, effetti laterali di un movimento che si dava ben altri obiettivi.
E non è stato, il ’68-’77, la premessa e la preparazione della lotta armata e del terrorismo. Semmai la democrazia diretta, il rifiuto della delega, la lotta di massa sono stati e sono l’esatto contrario della delega in bianco a superuomini armati perché decidano loro della vita e della morte e dirigano in questo modo oggi il movimento e domani lo Stato.
Infatti è dimostrato anche dalla nostra storia del “decennio rosso” (ecco perché della storia non si può fare a meno) che quando e dove esiste il movimento non esiste la lotta armata avanguardistica e che, al contrario, quando e dove esiste la lotta armata avanguardistica il movimento non c’è più, e ciò che ne resta viene mandato a casa. In questo caso più che mai le date contano, eccome: la lotta armata è del tutto assente non solo nell’anno ’68 ma ancora in tutto il periodo che seguì[8], e bisogna aspettare la sconfitta del movimento del ’77 (cioè la repressione, fra sparatorie sui cortei delle “squadre speciali” e divieti di manifestare da parte di Cossiga e della maggioranza dell’ “unità nazionale”) perché una piccola parte di compagni si lasci convincere che non c’era ormai niente altro da fare che sparare, perché insomma le Br conoscano nel movimento un certo consenso (seppure sempre contrastato e minoritario) e perfino dei margini di egemonia, profittando anche di passività e di opportunismi (in questo caso l’“opportunismo di sinistra”) che allignavano anche dove meno ce li saremmo aspettati.
Vedremo meglio più avanti gli elementi della situazione politica (e in particolare l’atteggiamento del Pci) che contribuirono a rendere egemonico l’insurrezionalismo per alcuni settori del movimento. (…)
Ma parlando della risposta disperata del terrorismo di sinistra non si può in alcun modo scordare il fatto che essa fu preceduta da un decennio e oltre di terrorismo fascista e di stragismo di Stato, l’uno e l’altro sempre impuniti e sempre strettamente connessi fra loro.
Tento qui, del tutto casualmente e sulla base della mia fallibilissima memoria, un elenco degli omicidi compiuti da fascisti-Stato in quegli anni: Paolo Rossi, Soriano Ceccanti, Tonino Miccichè, Pino Pinelli, Cesare Pardini, Carmine Citro, Saverio Saltarelli, Domenico Congedo, Giuseppe Malacaria, Franco Serantini, Mario Salvi, Luigi Di Rosa, Mario Lupo, Vittorio Ingria, Fabrizio Ceruso, Rodolfo Broschi, Roberto Franceschi, Adelchi Argada, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi, Fanny Dallari, Alberto Brasili, Alceste Campanile, Piero Bruno, Enzo De Waure, Gennaro Costantino, Iolanda Palladino, Gaetano Amoroso, Giorgiana Masi, Benedetto Petrone, Francesco Lorusso, Walter Rossi, Lorenzo Jannucci, Fausto Tinelli, Ivo Zini, Claudio Miccoli, Peppino Impastato, Roberto Scialabba, Ciro Principessa, Valerio Verbano, Mauro Rostagno, etc. [9]
Quest’elenco è purtroppo incompleto (delle mie dimenticanze, come dei miei errori, chiedo sinceramente scusa in anticipo) ed esso è due volte orrendo: orrendo per la sua stessa casualità, perché dimostra che non esiste una memoria socialmente consolidata di questi morti, così che alcuni di loro non hanno neanche diritto ad essere ricordati; ma anche orrendo per la sua parzialità (di cui mi vergogno), perché in effetti dovremmo riuscire a considerare morti “nostri” anche i terroristi, i poliziotti e i fascisti, dato che tutti, tutti senza eccezione, sono stati vittime di una precisa strategia del potere[10] che (a cominciare dal celebre convegno svoltosi all’Hotel Parco dei Principi di Roma fra servizi segreti e neo-fascisti) è stata prima pensata, voluta, progettata e poi attuata contro la paventata rivoluzione italiana, cioè contro di noi. 
Senza dimenticare Avola (2 braccianti uccisi) e Battipaglia (2 morti e 200 feriti), la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 (17 morti, 88 feriti), la bomba sul “Treno del sole” (22 luglio ’70: 6 morti), l’abortito “golpe Borghese” del 1970, l’attentato alla Questura di Milano (17 maggio ’73: 4 morti, 45 feriti), la bomba di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio ’74: 8 morti, 103 feriti), la bomba sul treno Italicus (4 agosto ’74: 13 morti, 48 feriti), le mitragliate e le bombe fasciste contro le donne a “Radio Città Futura” (9 gennaio 1979: 5 compagne ferite gravemente, la radio distrutta), la strage alla stazione di Bologna (2 agosto ’80: 85 morti, 200 feriti). Se sommiamo questo terribile elenco di morti ci rendiamo conto che fummo fatti oggetto di una vera e propria guerra, una guerra a bassa intensità, ad opera di fascisti, mafia, NATO, servizi segreti italiani (e non), sempre in stretta connessione fra loro, sempre protetti, sempre impuniti.
Il ragazzo Carlo Giuliani, ucciso a Genova nel 2001, non è stato dunque il primo.
La dice lunga il fatto che questa autentica matrice della lotta armata sia del tutto dimenticata da quegli stessi che vorrebbero mettere quest’ultima sul conto del ’68-’77.
Pasolini scrisse: “Io so. Io so, ma non ho le prove”. Mi permetto di aggiungere che almeno una prova del coinvolgimento dello Stato e dei servizi c’è, una prova indiretta ma clamorosa e definitiva, e questa prova è la stessa impunità che è stata ed è garantita, da sempre e per sempre, agli autori e ai mandanti di quei crimini. Chi se non lo Stato e i suoi apparati sarebbe stato in grado di garantire una tale assoluta, incredibile impunità a una serie tanto lunga di delitti?

3. Il ’68 e il (18)48.
Il movimento del ’68-’77 non fu dunque – al contrario di ciò che ne scrivono e ne scriveranno i giornali della borghesia – né un movimento per i diritti civili né una matrice del terrorismo: fu invece un’insorgenza rivoluzionaria con caratteristiche di massa, insomma fu un tentativo (per quanto politicamente primitivo e insufficiente) di fare la rivoluzione in Occidente. Né più né meno.
Allora se un paragone storico si vuol tentare, oso avanzarne qui uno tanto sensato quanto inedito e forse sorprendente: il ’68 si può rassomigliare al ’48, intendo il 1848 europeo, l’anno che fu detto “primavera dei popoli” e che vide praticamente ovunque in Europa moti e rivoluzioni, al punto da essere divenuto proverbiale: “è successo un quarantotto…”, “fare un quarantotto…”, etc.
Ebbene: il ’48 (proprio come il ’68) esplose, quasi simultaneamente ovunque, al tempo in tutta Europa: cominciò a gennaio la Sicilia, e poi a febbraio Parigi, e via via Francoforte, Vienna, Venezia, Milano, Praga, Torino, l’Ungheria, la Toscana, etc.; e tuttavia nel ’48 (come nel ’68) questa simultaneità non derivava da una centrale direttiva comune ma solo (solo?) da cause profonde, dal maturarsi di movimenti sotterranei. E ancora: il ’48 (proprio come il ’68) sembrò volere tutto, puntò molto in alto e parve perfino vincere, ma in effetti fu sconfitto ovunque.
Tuttavia, dopo il ’48 (come dopo il ’68) nulla fu più come prima. La fine della Restaurazione era segnata, anche se dal ’48 la Restaurazione uscì ovunque vittoriosa: ma solo apparentemente. Infatti c’è da chiedersi quanto vera e duratura sia stata quella serie sanguinosa di vittorie, giacché soggetti storici del tutto nuovi e storicamente incomprimibili erano ormai apparsi sulla scena.
Così dopo il ’68: la fine dell’assetto capitalistico dell’Europa sembra segnata, anche se dal ciclo di lotta del ’68 tale assetto usci ovunque vittorioso. Apparentemente. 

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[1] P. Gomez, Un cold case chiamato ’68, in “Fq Millennium”, a. I, n. 6, ottobre 2017, p. 5. Si noti anche la definizione di “cold case”, letteralmente un “caso freddo”, l’espressione che si usa per un delitto antico rimasto impunito.
[2] Ibidem.
[3] M. Fini, Altro che balle, io che c’ero vi dico che i leader erano solo borghesi in carriera, ivi, p.59.
[4] Ivi alle pp. 30-31. Questa pagina delle figurine rappresenta forse la migliore invenzione giornalistica del fascicolo di cui parliamo e certamente è quella destinata a rimanere maggiormente impressa nei lettori.
[5] Ad eccezione naturalmente di DP, espressione politica più o meno diretta del ’68, un partito comunque emarginato sempre e sempre fuori da ogni e qualsiasi potere.
[6] Massimiliano Fuksas, autentico sessantottino mai pentito, rappresenta la felice eccezione.
[7] In altri paesi occidentali non è successo affatto così (il tema è stato declinato, nomi alla mano, dal libro di A. ILLUMINATI, Percorsi del ’68. Il lato oscuro della forza, Derive e Approdi, 2008)
[8] Uno dei fondatori delle Br, Franceschini, scrive nelle sue memorie che lui trovò più o meno sulle pagine gialle l’indirizzo di Giulio Andreotti (tanto le Br erano interne al movimento romano!). L’aspettò mentre all’alba andava a messa a S. Giovanni de’ Fiorentini e, per testare l’efficacia della scorta (o forse come gesto portafortuna?), lo toccò perfino. Contento di questi risultati comunicò subito alla centrale delle Br che sarebbe stato facile rapire Andreotti. Ma – guarda tu la combinazione! – pochi giorni dopo venne arrestato. Chi scrive ebbe il privilegio di ascoltare questo istruttivo racconto dalla viva voce di Andreotti, in occasione della presentazione del libro di Mario Capanna al residence Ripetta a Roma. L’ineffabile Divo commentò con la sua voce chioccia: “E così rapirono il povero Moro. Non sarà carità cristiana, ma io dico: Meglio così…”.
[9] È stato per me prezioso in questo sforzo di memoria il mio amico e compagno Franco Federici, in cui vive la migliore tradizione del nostro movimento; a lui vada il mio grazie più sincero. Cfr. anche G. DE LUNA, Le ragioni di un decennio, Feltrinelli, 2009. Guido Bellachioma, colpito alla testa da una pallottola dei fascisti il 1 febbraio 1977 (e fu l’innesco del ’77), riuscì fortunatamente a sopravvivere. Basti il nome di questo compagno per ricordare tutti/e coloro che, pur non perdendo la vita, riportarono ferite, a volte terribili nel corpo e nello spirito.
[10] Si parla di solito di “strategia della tensione”; l’espressione contiene una parziale verità, e tuttavia mi sembra nel complesso inadeguata per descrivere ciò che il potere in Italia progettò e realizzò.